Nel mondo
occidentale definirsi Artista, mestiere generalmente auto dichiarato e fin
troppo di rado auto certificato, ti investe subito di un'aura di interesse e
magnetismo nei confronti della parte di popolazione intellettuale . Di invidia,
della piccola fetta che guarda ancora la chitarra impolverarsi nell'angolo del
divano chiedendosi come sarebbe stata una vita alla Frank Zappa e ripetendosi
che a questo mondo il tuo destino lo definisce la "porta" da cui esci
il giorni in cui ci arrivi.
Di disprezzo,
ribattezzato fancazzista, dal meneghino medio, che traccia il grafico del
successo piroettando fra: conto in banca, immobili, automobili e la portata
economica dei regali che può fare per Natale alla famiglia ed alle amanti.
Fatto sta che al
giorno d'oggi la maggior parte della gente che si incorona "artista"
trova in questa parola un ottima scusa per giustificare il fatto che sta per
barattare una birra con tante storie di viaggi finanziati da dubbi enti, con
ideologie abbozzate ma mai delineate, con slogan super fichi privi di sostanza.
Insomma la versione culturale delle donne che dichiarano di essere innamorate
della libertà, per giustificare il fidanzato/marito con il prosciutto sugli
occhi ed il cesto di lumache in testa a cui promettono eterno amore, dopo
essere state ingroppate dal manzo di turno, conquistato con ideali falsi quanto
i loro sorrisi.
Tabelle ed etichette
in un mondo incapace di semplificare, perché perderebbe l'essenza stessa
essendo carente di sostanza.
Ma dove si nasconde
dunque l'arte e la bellezza in questo angolo di mondo antico e frenetico al
tempo stesso?
A Bali, l'arte è in
tutto quello che vedi. Le porte sono intagliate a mano artigianalmente, così
come gli armadi e spesso le maniglie, i tavoli anche quelli di legno più grezzo
sono un incontro perfetto delle mani della natura e dell'uomo. Ogni via di Ubud
rivela botteghe artigiane dove troverete quadri, sculture in legno o pietra
spesso vulcanica. I tessuti sono lavorati e colorati a mano. Qualche scuola di
Batik che ha resistito alla migrazione di massa verso Jakarta e botteghe del
pregiatissimo Ikat, dipinto filo per filo, nelle sue versioni più preziose
intrecciato con fili d'oro e argento. La bellezza è ovunque: dalla cura
cromatica con cui vengono assemblati i piatti nei Warung, da sembrare dei
piccoli quadretti espressionisti a come vengono intagliate le noci di Cocco. Si
perché da noi del maiale non si butta via niente, qui vale per i cocchi:
decapitati, ciucciati da turisti e locali, poi raccolti, fatti essiccare al
sole e poi scavati ed intagliati per farne maschere.
Basta guardare la
mattina per terra i piccoli vassoietti di banano intrecciati a mano, con
composizioni di fiori colorati, riso e altri generi alimentari, messi fuori
dalle porte e negli incroci per ingraziarsi i demoni.
La cosa che più
colpisce un occidentale, nel momento in cui ci si sofferma a vedere questi
piccoli attacchi d'arte quotidiana, è il tempo che si dedica alla creazione di
oggettistica destinata a deperire in fretta. Essendo abituati alla plastica e
all'usa e getta, sembra assurdo "perdere tempo" nel creare la
bellezza in oggetti che non devono sfidare il tempo.
Ma è veramente
questa l'essenza dell'arte? Sfidare il tempo immortalandosi e superando i
limiti della permanenza di ogni singolo artista sul pianeta o si può creare per
il momento, il presente senza dover per forza avere una progettualità?
Poi alzi gli occhi
al cielo e rimani strabiliato dalla maestosità dei Penjor, le decorazioni che
sovrastano la città, una dietro l'altra, in onore del Galungan, quel periodo
dell'anno balinese in cui gli spiriti ancestrali scendono a trovare gli
abitanti dell'isola.
Allora capisci che
la bellezza non deve essere eterna e perfetta per essere necessaria.
E finisce tutto in
una sonora risata quando scopri che, in Balinese, la parola Arte, non esiste.
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