martedì 24 febbraio 2015

Our work is changing.

Non ho il copyright di questa frase, per quanto potrei tranquillamente attribuirmene la maternità per tutte le volte che l'ho pensata, esposta e tentato di far capire ad interlocutori disinterssati.
Sono quasi quattro mesi di nomadismo, di lavoro in uno spazio di Co Working e di inserimento in una società agli antipodi dei paramentri italiani. Quattro mesi in un ambiente multiculturale fatto di persone che si nutrono di curiosità, che investono tempo e dedizione in progetti studiati con tutta la professionalità del caso. Quattro mesi in un mondo fatto di sogni che non dormono nel cassetto, di progetti che non si accantonano per paura, di preghiere Hindu alla statua di Ganesha che protegge la casa, di meditazione e di introspezione nelle sedute di Yoga, di risate e di abbracci sinceri e svariate ideologie lanciate nel calderone di sentimentimenti e relazioni momentanee quanto profonde con stranieri che senti un po' famiglia, un po' parte di te.
Quattro mesi dopo smetti di comprendere e giustificare chi passato il giro di boa dei trenta, non ha ancora il coraggio di alzarsi in piedi, far sentire la sua voce, affrontare la propria vita ma caccia la faccia nel cuscino dell'infanzia mentre la mamma accarezzando la testa ripete che andrà tutto bene e non è da solo.
A questo punto del mio viaggio mi chiedo perchè si sprechino gli anni migliori sguazzando nell'infelicità.
Abbiamo tutti un bagaglio di scuse sul groppone per giustificare la qualità insoddisfacente della nostra vita, con le quali ci addobbiamo quotidianamete, invece che riempirci le tasche di energia e affrontare le situazioni con entusiasmo.
Rianalizzando la mia collezione di fallimenti, umani, emotivi e professionali, mi rendo conto che l'unica responsabile delle proprie azioni sono sempre stata io.
Non è colpa della persona con cui la relazione sentimentale, sia essa amore o amicizia, è fallita. Sono stata io che ho infilato la testa sotto la sabbia, mi sono raccontata favole auto assolutive per evitare di affrontare il problema in tempi brevi, per codardia e mancanza di coraggio. Non è colpa dello stato se non ho una stabilità economica, vivo in uno stato guidato da un governo corrotto ed assolutista, che spesso spadroneggia concentrando buona parte dei beni economici nella capitale e lasciando alla mercè dei propri problemi sociali il resto dell'arcipelago, provvedendo addirittura a soffocare violentemente eventuali rivolte sociali. Eppure, questo angolo penalizzato dell'arcipelago mi insegna ogni giorno nuove lezioni. Innanzitutto, che ognuno costruisce il proprio destino senza attendere dall'alto soluzioni. Sono poche le caste che si possono permettere l'accesso alle sovvenzioni statali, tuttavia ognuno nel suo piccolo crea la sua piccola fortuna. In un Warung dismesso, portando a spasso pasti sulla testa da vendere a chi lavora e producendoli di notte, investendo nella costruzione di più strutture per ospitare turisti, creando tour per l'isola. La cosa sconvolgente che ho notato qui è che una popolazione dall'infimo livello di scolarizzazione, spesso anche in età molto avanzata, impara le lingue necessarie per portare avanti quello che sanno fare. Che sia l'inglese, il giapponese o il cinese, si lanciano a capofitto nell'apprendere rudimentalmente chiavi di comunicazioni universali. Mentre noi, dall'alto della nostra cultura sviluppata,di rado affrontiamo lo scoglio di un'altra lingua cercando la via più semplice anche per le vacanze.
Un'altra grossa lezione mi è stata data nel weekend trascorso, quando suggerendo ad un amico del luogo l'idea per un nuovo business, che sarò lieta di supportare, la sua prima affermazione è stata: "Ho bisogno di tempo per costruire un team." Individualismo di matrice occidentale contro l'alveare asiatico. Chissà chi ha ragione. Forse è vero che nel vecchio continente il benessere ha raggiunto livelli molto più elevati, ma è vero che in un Asia abituata a combattere con tragedie geologiche ed epidemiche, rivolte intestine e spesso occupazioni, ad oggi sembra avere maggiore stabilità e reggere meglio l'impatto della crisi globale, divenendo una delle poche oasi depression free, dove la crescita aumenta anzichè diminuire. Sarà forse il caso di smettere di mangiare tutte quelle torte, che poi ingrassano e causano problemi cardiovascolare ed iniziamo a dividerle con la nostra comunità.
Il titolo di questo articolo è in una tabella di legno pirografata, all'interno principale di Hubud, il mio ufficio balinese.
Forse sia il caso di percepire la crisi come un cambiamento anzichè una depressione e di affrontare la dolorosa politca nazionale ed internazionale come un'occasione per cercare il nostro posto nel mondo?
Qualche giorno fa, mentre studiavo per la redazione di un contenuto per un mio cliente, mi sono trovata a leggere la storia della Vespa. Il simbolo del design italiano nel mondo, attualmente esposto al MoMA di New York e noto al mondo intero, non è nato in un periodo di placido benessere. Fu subito dopo la Seconda Guerra Mondiale che Enrico Piaggio si trovò ad affrontare la depressione di uno stato dopo una delle peggiori piaghe umane e ovviamente un business in decrescita visto che il potere d'acquisto era crollato. Non aspettò però momenti migliori, non si rintanò nel suo porto sicuro. Decise di produrre un veicolo alla portata di tutti, di larga diffusione. La cosa che forse non tutti sanno e che ho piacevolmente scoperto è che il prototipo della Vespa fu un flop e i primi pezzi vennero accolti negativamente dal pubblico. Nonostante ciò, investì ciò che aveva in una catena di montaggio, perfezionò il modello, chiese un appoggio commerciale all'allora salubre Lancia e il suo audace, per i nostri tempi forse folle giocarsi i tutto per tutto creò quello che oggi è noto in tutto il mondo.
E' forse dunque arrivato il momento di rimboccarsi le maniche e smettere di piagnucolare cercando soluzioni reali, smettendo di sopravvivere in attesa del miracolo?

lunedì 23 febbraio 2015

Yummi Time

L'Asia è una festa continua. Dai colori della frutta e delle piante tropicali ai suoni dei tempi e delle loro infinite celebrazioni o dei coloratissimi mercati rionali fino ai profumi ed i stravolgenti sapori del cibo.
Il cibo è uno degli aspetti più caratteristici di questo continente e non c'è viaggio o vacanza che non può essere immortalato nella memoria attraverso questi piccoli bocconi di paradiso, presenti tutto il giorno ovunque. Una volta effettuati i vaccini per l'epatite alimentari e stampata l'assicurazione medica internazionale, lasciate da parte i pregiudizi per tutti i posti apparentemente lontani dai canoni ferrei dell'HACCP e lanciatevi in questo party di sensi che resterà nella vostra memoria per il resto dei vostri giorni.
A Bali buona parte del cibo è in movimento costante. A bordo di scooter , spinti a mano o trasportati in testa in cestelli di plastica, ogni città e paesino è invaso letteralmente da questi carrellini coperti che producono pasti all'istante. Ognuno è specializzato in una ricetta particolare e dopo qualche settimana a Bali sai che basta stare fermo ed il cibo arriverà. La prima regola dello street food è : Take it easy. Non vedete subito pericoli di intossicazione alimentare, salmonella ed altri demoni in questi venditori. Innanzitutto appena vi avvicinerete un po' scoprirete che la maggior parte dei piatti è a base vegetariana. Secondo, tutto viene spesso fin troppo cotto, debellando quindi qualsiasi eventualità di sopravvivenza di virus e batteri. E per quanto riguarda il tasto dolente della conservazione degli alimenti, non vi preoccupate: la maggior parte dello street food è fatto il giorno stesso al massimo la sera prima e non ci sono molte possibilità di conservarlo. Come mi disse il proprietario di un piccolo Warung vicino a Candidasa: "non abbiamo i frigoriferi quindi compriamo solo la quantità di pesce e merce deperibile che prevediamo di consumare. Se ne avanza, la sera tiriamo fuori il BBQ e il compound fa festa." Se non è nel vostro interesse passare 24h incollati alla tazza, è ancor di meno nell'interesse del venditore che sotto il sole o la pioggia passa da un quartiere all'altro o delle Ibu che passano le ore su di un bemo a portare i loro cestini con il cibo che hanno passato la notte a cucinare per portare a casa la pagnotta quotidiana.
Una volta superato lo scoglio psicologico, cambiate le vostre banconote in basso taglio ( i prezzi dei pasti oscillano fra le 2.000 e le 20.000 rupie. Il tasso di cambio è approssimativamente 1 Euro = 15.000 Rupie), per non aver problemi con i resti e preparatevi a sorprendere voi stessi in questo valzer dolce e salato, dall'alba al tramonto.
Se passeggiate la mattina per un qualsiasi market rionale, non mancate di far colazione o spuntino con dei deliziosi Jajan.
Troverete delle solitamente anziane signore, sedute su qualche gradino, con il loro cestello e questi piccoli bocconcini verdi di paradiso. Anche le maniache della dieta se ne concedano qualcuno senza remore. Palline, ciambelline o gelatine di farina di riso o amido di riso aromatizzate al pandano, cotte al vapore o alla piastra, che vengono annegate di sciroppo di palma e cocco grattato spesso sul momento. Si, preannuncio che la Ibu che incontrete non indossa i guanti in lattice ma siete vaccinati e pieni di vitamine come un multicentrum, se vi fermerete alle apparenze perderete dei piccoli bocconi di paradiso (che per inciso, mangerete anche voi con le mani.). Se invece non riuscite a decidere fra il dolce e il salato il Tipat Tahu è quello che fa per voi: bocconi di riso pressato a panetto, tofu, germogli di soia il tutto condito con la salsa nazionale di arachidi e la salsa di soya. Attenzione, se alla domanda "spicy" risponderete si, quasi sicuramente un peperoncino verde notevolmente piccante verrà tagliato al momento sul vostro piatto. Se non siete degli amanti del piccante evitate. Per gli amanti della carne ci sono svariate alternative: dalle bancarelle che vendono solo pollo fritto migliore del KFC al celebre Bakso, che significa polpette, spesso servito in una sorta di Ramen con tagliatelle di riso, verdure ed una cucchiaiata del brodo in cui vengono bollite al momento stesso in cui lo ordinate. Questo ammetto è uno dei pochi street food che non ho assaggiato, mi risulta difficile godermi una zuppa quando la temperatura media è di 28 gradi, ma sicuramente prima del mio rientro nel vecchio continente, in un giorno di pioggia o verso sera, ci proverò.Anche se non appartiene propriamene allo street food in quanto lo potrete trovare solo nei Warung, merita di essere citato il Babi Guling. Un maialino da latte intero, allo spiedo, speziatissimo. Spesso servito con la sua croccantissima cotica ed altre parti. Sarà che da veneta sono stata cresciuta con la frase "del maiale non si butta via niente." oppure che in sette anni in Grecia ho trovato deliziosi piatti come la zuppa di frattaglie di Pasqua o zuppe di origine ottomana a base di cervello, o di altre parti un po' taboo, ma il Babi Guling è un'esperienza che non si può perdere! Vi consiglio inoltre di evitare il rinomatissimo Ibu Oka in centro ad Ubud, decisamente sovrapprezzo e di cercare una bettolina in qualche paesino oppure in periferia a Denpasar. Riconoscerete i Warung specializzati dall'immagine del maialino sulla tabella o dalla testa del maialino esposta. Se avete amici o compagni vegetariani, teneteli lontani. Lo snack nazionale invece, sembra essere il Gorengan.
Piccoli sgabbiotti in cui troverete di tutto e di più, fritto. (Goreng difatti significa sia "saltato in padella" che "fritto".)
Nei Gorengan si troverà di tutto, dolce o salato, banane, pane, tofu, tempeh, involtini primavera (che qui si chiamano lumpia) e verdure di vario tipo. Tutto pastellato e rigorosamente fritto. Se scegliete la versione dolce, il cocco e lo zucchero di palma accompagneranno il vostro spuntino, mentre se scegliete il salato la salsa di arachidi avrà la meglio. Passeggiando inoltre incontrerete in diversi punti della gente che sembra quasi finita li per caso, anche se di casuale per un Hindu animista Balinese non c'è nulla, che con una piccolissima griglietta rudimentale e braci di cocco essicato, stanno preparando quello che è un'altro snack nazionale: il Satay. Mentre in un ristorante ne avrete un paio, notevolmente sovraprezzo, per strada potrete addirittura uscire con un pacchettino di 10 o 15, accompagnati da riso e salsa di arachidi. Piccoli spiedini di carne, tofu o pesce, fatti al momento. Una delizia.
Ma quando la fame si fa importante è ora di far sul serio. A quel punto o ci si catapulta in un Padang, ristorantini gestiti da migranti di Sumatra riconoscibili da i piatti e le pietanze rigorosamente in vetrina, oppure ci si ferma nei piccoli street food station. A Penestanan, il mio quartiere, c'è n'è uno proprio a pochi metri da casa mia. Rispettando il concetto dello stand, questo è però stabile, gestito dalla famiglia che vi abita dietro ed offre piatti diversi dalla mattina alla sera. Da pollo in tutte le salse, curry, salsa rossa, stufato, fritto o piccante a tofu, tempeh, verdure varie cotte in modi diversi ogni volta ( una delle mie grandi passioni è la melanzana, che mi friggono al momento senza nemmeno la pastella.), frittelle di mais o di patate, pesce fritto o al forno. Uno street food station è come avere la mamma che ti prepara da mangiare ogni giorno, soprattutto dato che i titolari nonostante il gran passaggio si ricordano di te, ogni sera chiacchierano con te e ti consigliano i menù per non mangiare sempre le stesse cose.
Ci sono infiniti altri street food a Bali ed in Asia, come avrete letto nei miei articoli su Singapore e KL. E ho dovuto sintetizzare perchè nonostante abbia pranzato regolarmente, questo articolo mi sta facendo tornar fame e temo che un salto all'Ubud Market per un Tipat Tahu o un Gorengan non me lo toglierà nessuno.
Ma l'amore passa per lo stomaco e non mi sarei mai potuta innamorare di uno stato senza esplorare senza limiti la sua meravigliosa cucina. Per quanto sia povera e semplice, senza ricerca o visual merchandise.

La bellezza a Bali si nasconde nel contenuto e non nella forma.

Per chi volesse saperne di più, vi invito a visitare e se volete iscrivervi a questo Gruppo su Facebook. Ideato da locali ed expat, ospita migliaia di viaggiatori, innamorati dello street food e della cucina folkloristica di questa meravigliosa isola. Come potrete notare tutte le foto in questo articolo sono state riprese da li.
Abbiate pazienza: quando mangio molto molto raramente penso di scattarne una foto prima. Sono troppo impegnata a godermi il momento!

martedì 17 febbraio 2015

Cellar Door

La vita di una Start Upper è fatta di porte.
Solitamente sbattute in faccia, ripetutamente. La vita è un osso duro e la predominante che differenzia l'enterpreneur (imprenditore ndr.) dal colletto bianco è la resistenza alle scornate contro le porte per procacciarci il cibo quotidiano.
Mi rendo conto che chi segue il mio blog da un triste ufficio e magari mi legge in un'insipida pausa pranzo senza carboidrati per mantenere la linea crede che la vita di noi nomadi digitali/freelance/startupper sia fatta di party, feste, cocktail e ore di infinito cazzeggio. Purtroppo devo sfatare il mito.
Nonostante provveda a riempire questo spazio virtuale di immagini divertenti e positive, vi assicuro che buona parte della mia giornata è fatta da me, che mi appiattisco le chiappe già flaccide di natura, partorendo preventivi per clienti che scelgono molto spesso la soluzione più economica.
Come in tutti gli ambienti, anche nel mio, la crisi porta a galla infinite professionalità che pensano bene di spuntarla abbassando i prezzi a livelli ridicoli. Quello che il cliente non sa, tuttavia, è che insieme al prezzo si ribassa notevolmente anche la qualità del servizio erogato ed è idiota pretendere di avere una Cadillac al prezzo di una Y10 perché tanto c'è crisi.
Se quando lavoravo dal mio eremo piacentino ogni porta sbattuta in faccia vibrava in ogni cellula riempiendoti di domande sulla tua reale capacità. competenza e soprattutto l'esistenziale quesito: sto facendo la cosa giusta? Da quando sono arrivata ad Hubud ed ho cominciato a cacciare le mani nel mondo dei freelance, ho scoperto che anche la loro vita è fatta di porte. Sbattute. Spesso prima ancora di ricevere una proposta.
Qualche giorno fa ho finalmente avuto modo di stringere la mano ad Alex, un francese che da settimane sentivo tenere chiamate skype infinite verso tutto il mondo r promuovere la sua impresa.
Ogni giorno, senza sosta. Decine e decine di telefonate al giorno. Molte delle quali finiscono alla prima battuta di presentazione, senza dar lui modo di approfondire. Mi chiedevo che razza di forza si nasconde in questo uomo, che se trova un paio di realtà ad accettare la sua proposta commerciale a fronte di quasi un centinaio di chiamate, è da considerarsi un successo. Eppure passeggia con il suo Mac per il cortile, chiama ed ogni chiamata sorride.
Quando ho avuto modo di stringergli la mano, con la sfacciataggine che mi contraddistingue, gli ho detto: Ma io ti conosco! Tu sei il titolare di xxxxx ti sento ogni giorno chiamare decine di persone. Sei il mio modello nei giorni bui.
Ho scoperto che Alex ha una famiglia e due figli, ma non si fa vincere dalla paura di una mensilità incerta. Continua a bussare, consapevole che prima o poi qualcuno apre.
Così mi sono chiesta: è meglio una vita di porte a cui bussare oppure la certezza di un "nido" lavorativo noioso ed abituale? Perché siamo sempre insoddisfatti?
Si forse era meglio cercare di spiegare l'etica della questione palestinese. Ma si sa che fare il funambolo sui massimi sistemi è da sempre una delle mie attività preferite.
Fra il vagabondare da un mondo all'altro, quello che sempre di più si fa certezza è che il concetto di sicurezza è inversamente proporzionale al "benessere" dell'ambiente circostante. Assurdo vero?
Come ho avuto modo più volte di spiegare, la semplificazione delle condizioni di vita di un popolo li porta ad abbassare la stanghetta tornasole della "felicità" aumentandone così le percentuali.
Ma questa volta non prendi a paragone quell'umanità che non ti è congrua ma persone come te, che combattono la propria battaglia per una vita tagliata e cucita su misura. La cosa strabiliante è cambiare la prospettiva e capire come quello che ti è stato passato come "incertezza" per molte menti sia "opportunità".
Allora forse è li che sta il segreto. A farsi i calli sui bernoccoli delle porte chiuse in faccia. A cercare senza perdere la fiducia, guardandosi spesso alle spalle e ripetendosi che se ce la si è fatta fino a qui,non potrà che andare meglio da qui in poi.
Non tutte le porte si chiuderanno.
Continuare a bussare, senza fare passi indietro.

Quando ho scritto la prima frase di quest'articolo, la prima parola che mi è venuta in mente è stata "cellar door". Definita la parola più bella della lingua inglese per il suo suono, senza bisogno di applicare un significato.
Forse è per questo che resto un'utopica idealista. Continuo a scovare magia nelle parole e a credere che un mondo diverso è possibile.

E dietro ad ogni porta chiusa c'era semplicemente un mondo che non valeva la pena di esplorare.

mercoledì 11 febbraio 2015

Io non ho paura.

Pur vivendo in una bolla, lontana migliaia di kilometri dalla miseria della crisi e dal terrorismo mediatico, seguo incessantemente le notizie provenienti da casa. Io di case ne ho due: una di mattoni stabile ed immutabile con l'andare degli anni, forse un po' posh, che mi ha vista nascere ed imparare come funziona il mondo, fra stabilità e circoli viziosi che spesso si intrecciano perdendo i confini e si chiama Italia. La seconda è un calderone che ribolle senza sosta, fatto di sogni e del sale del mare più blu che abbia mai visto in Europa, di un bagaglio storico importante e di una corona sempre più pesante di spine ed allori che risponde al nome di Ellade.
Non sono esente da crisi, sono un minimi, grava sulla mia testa la spada di Damocle delle tasse che cambiano come l'umore di una donna in PMS, ma la vita è arte e se si vuole osservare un quadro in tutti i suoi dettagli a volte è saggio fare qualche passo indietro e prendere le giuste distanze.
Dalla giusta distanza vi posso dire che a me la crisi non fa paura.
Non mi spaventa non avere certezze riguardanti il mio posto di lavoro, il mio conto in  banca, la mia pensione che non arriverà mai.
Non temo di non poter mai prendere un mutuo per comprare casa, non ho bisogno di una macchina costosa o di abbigliamento di marca che non mi potrò permettere. Non sono frustrata all'idea che a quasi trentadue anni non ho nulla di certo se non questi circa sessanta chili che mi porto a spasso fra un continente e l'altro, qualche sinapsi in più di quando ero più giovane e lo stomaco in panne se la sera prima faccio la splendida al ristorante indiano chiedendo un pasto molto spicy.
Quello che mi fa paura è il pressapochismo della mia generazione. Tremo ogni volta che sento pareri letteralmente defecati con estrema certezza su questioni di cui si ha una blanda infarinatura generale. Mi spaventa la poca voglia di cambiare, che vedo nelle persone. Tutti ripetono di volere un mondo migliore, ma lo attendono nella loro comfort zone, lagnandosi ma non prendendo in mano il volante. Ho paura ogni volta che una persona dichiara di non prendere posizione "perché tanto sono tutti uguali" senza nemmeno curarsi di avere un'idea dettagliata di chi stanno rinnegando. A volte mi sento di vivere in un limbo, una gigantesca sala d'attesa dove tutti attendono un domani migliore e nessuno se lo va a prendere.
Mi chiedo perché.
Com'è possibile che i figli della generazione che ha fatto il sessantotto non ha il coraggio di alzare la voce? Perché nella nostra vita le cose fondamentali sono gli sfizi, i gadget, il "sembrare" qualcuno invece di vivere in modo lineare? Da quando le bugie per quieto vivere fanno parte del lessico famigliare, le famiglie sono società per azioni e ci si lascia e si prende in base alle disponibilità economiche e ci si innamora su modello McDonald, tutto e subito e il cestino pieno di scarti?
Quando abbiamo smesso di credere in un mondo migliore?
Leggere le notizie diventa un processo sempre più doloroso. Affrontare questa folla di musi lunghi e rabbia, folate di calunnie e malignità, sensibilizzazione limitata ai propri simili e totale insensibilità ai morti di un dio minore.
A volte piango, nel leggere i commenti alle notizie.
Vorrei prendere a pugni tutti quelli che insultano la mia seconda casa, il mio secondo popolo, dalla loro comoda seggiola senza avere un'idea di quanto ingiusti siano stati questi cinque anni e di quanto abbiano violentato la loro natura conservatrice per alzare la testa.
Piango quando leggo sentite condoglianze per i morti al truce attentato francese e quando la notizia di centinaia di profughi morti di freddo annegati vengono commentati con un "meglio così, meno bocche da sfamare.".
Mi si contorcono le budella quando vedo che le vite umane vengono pesate e vendute in base alla bandiera dello stato, quella politica o quella religiosa.
E pensare che il mondo andrà avanti senza di noi in men che non si dica e noi abbiamo trascorso gran parte della nostra vita incazzati con qualcuno o qualcosa…
Quando ero bambina avevo un sacco di sogni. Credevo ai folletti dispettosi che mi nascondevano le cose in camera, anche se ammetto che a quello credo ancora. Alla fatina dei denti, a Babbo Natale, che le nuvole fossero di panna montata e la luna di pan di spagna. Credevo che un giorno avrei trovato un villaggio fatto di caramelle come Hansel e Gretel, che sarei stata in una gigantesca sagra paesana in centro USA a mangiare tiramolle appena fatte e che un giorno avrei nuotato in un mare pieno di pesci ( e credetemi, chi ha vissuto il nord adriatico negli anni post petrolchimico sa che questo è pari a sognare una partita a briscola con un alieno).
Alcuni si sono avverati, altri sono stati sfatati dalla scienza e da noiose persone adulte , anche se per me le nuvole restano di panna e la luna di pan di spagna.
Ho cambiato sogni, crescendo sono cresciuti con me. Ma non ho smesso un solo attimo di essere un'irrimediabile idealista, per molte persone utopica.
Il mondo non è stato cambiato dalle api operaie. Ogni grande rivoluzionario, scienziato o pioniere del passato si è sentito sicuramente dare del folle quando con quello strano scintillio negli occhi, come se stesse presentando il suo capolavoro, annunciava la sua scoperta.
Eppure la storia ha dimostrato che sono stati questi i personaggi che hanno cambiato il corso degli eventi.
La mia vita qui non è fatta solo di noci di cocco, di ottimo caffè e pasti succulenti.
Passo la maggior parte della mia giornata facendo quello che mi sono promessa quando mi sono cacciata trenta chili di zaino in spalla: imparare. Seguo corsi, parlo con persone, osservo un mondo che non avrei mai immaginato restando a casa e che il NatGeo e Dmax non hanno mai passato. Seguo workshop e corsi, mi specializzo in sempre più settori.
Non ho paura di tornare a casa ad affrontare la mazzata di tasse che mi attende. Ma ho paura di rientrare e trovare davanti a me ancora una volta l'ipocrisia di un mondo di polistirolo e HACCP, di sorrisi di circostanza e di vuote chiacchiere da bar. Oramai nella mia vita colleziono eccezioni e sempre più spesso sotto la forma di sorrisi ed abbracci sinceri, di chi non ha nulla da guadagnare da te, ma inevitabilmente ti vuole bene. Nel bene o nel male.
Leggo sempre le notizie da casa, pur consapevole che il mondo intero è casa mia.
Sono Italiana, sono Greca, sono Indonesiana, sono Ebrea, sono Palestinese, sono Indiana, sono Americana.
Sono umana.
Non ho paura di una crisi economica. La carta stampata non mi può spezzare il cuore.
Ho paura di una crisi umana. Questa non sono capace di affrontarla, va ben oltre le mie capacità.
E continuerò senza sosta a cercare idealisti, sognatori, moderni Quijote con il loro fido destriero, pronti ancora una volta a dimostrarmi che questo pianeta ospita dei meravigliosi esemplari.

Oggi non pubblicherò una foto scattata da me, ma pubblico un'opera d'arte, perché tale è, che mi sono tatuata poco fa. La spettacolarità di Banksy, a mio avviso, sta nell'essere il Little Black Dress dell'ideologia contemporanea.
Ho trovato in me molto più di quanto mi aspettassi in questo artista ed in questa immagine, al punto che, l'ho eletta simbolo alla creazione della mia impresina e di me in questa fase fondamentale della mia vita.



martedì 10 febbraio 2015

Life is a Beach


Tre mesi in Asia e ti senti cambiata, forse migliore.
Hai ancora le crisi da "bonifico in ritardo" che ti mettono in stand by per settimane, ma provi ad affrontarle con maggiore serenità e a smaltirle più in fretta. Magari aiutandoti con qualche lezione di yoga. Hai smaltito i kg del mondo dell'abbondanza, dove mangiare non era più una necessità ed evitare le sembianze di un parallelepipedo era una delle fatiche di Ercole. Hai imparato ad affrontare gli inconvenienti della "simple life" come le colonie di formiche che ti invadono la cucina, i  gecki che la notte ti sbraitano sulla testa o perdere un treno perché hai sottovalutato le tempistiche.
E poi arriva una domenica come tante, dove per cambiare un po' aria, salti sullo scooter alla ricerca di mondi diversi e tutte le tue certezze vengono spazzate via.
Si chiama Uluwatu, si trova all'estremo sud dell'isola ed è un complesso di barettini, bettole e negozietti graziosamente arroccato sulle rocce e le grotte che portano in uno dei piccoli paradisi Balinesi. Non è una di quelle spiagge alla Rimini, dove vieni viziata e coccolata, ma una selvaggia piccolissima lingua di sabbia grossolana color oro, riparata da grotte porose che ti sgocciolano sulla testa. Ed è li che il tuo ego si prepara ad essere ribassato e le tue crisi esistenziali si impenneranno.
A parte qualche turista capitato per caso, che come te è in contemplazione come ad un Safari in Kenya, le criniere ondeggianti riflesse sull'oceano indiano sono quelle di un Ken dotato di sistema circolatorio e sessuale. Surfisti. Fichi.
Che il Surf sia una di quelle attività che ti renda un manzo da copertina oppure una gnocca dagli addominali scolpiti ed i glutei degni di un bronzo di Riace, s'era capito prima delle mie dis-avventure sulla tavola. Infondo se Kiedis si mantiene così nonostante la sua vita da rockarolla alle soglie dei cinquanta mentre tu al primo Asana che richiede qualche muscoletto in più tremi peggio delle mani di un malato di Parkinson, un motivo ci sarà.
Dopo aver sperimentato sulla mia pelle ed in ogni singolo strato della mia adipe il surf, versione for dummies, posso assicurare che il giorno dopo sembravo Forrest Gump nella preadolescenza.
Il surf è innanzitutto equilibrio, dicono.
Sticazzi, dico io!
Una che fa Yoga, ha anni di contact alle spalle e diverse coreografie se la dovrebbe cavare bene. Invece no! Perché purtroppo non è che ti metti in piedi sulla tavola e trainato da una forza invisibile come un postmoderno Cristo Australiano volteggi sulle onde in cerca di quella adatta.
Non sia mai.
Ti devi stendere su quella maledetta tavola, nuotare fino ad arrivare al punto in cui le onde sono "il giusto" per essere affrontate (non so voi ma nemmeno nelle lezioni più hard core di Hatha avevo percepito lo sternocleidomastoideo!) a quel punto devi guardare verso l'orizzonte (maledette tavole senza specchietto!) e quando "senti" che arriva quella giusta a quel con uno scatto felino (tranne me che sembro un chihuahua isterico sbracciante in una pozzanghera.) ti volti ed HOP leva sulle braccia (nel mio caso di gelatina) colpo di addominali (vedi cap. braccia) e sei in piedi!
Si direi che a suon di parentesi ho reso l'idea. Aggiungete svariate escoriazioni per tutte le volte che si crasha a riva peggio del 4s e ci siamo.
Invece loro no, loro sono degli angeli, che ondeggiano su onde importanti e le cavalcano con glorioso orgoglio!
Come fanno queste creature del cielo, così rare, ad essere fra i pochi eletti in grado di sfidare temerariamente gli oceani, scofanarsi burger come se fossero patatine con patatine ovviamente, dissetarsi a suon di birra eppure con il sorriso sulle labbra imburrate attraversare queste onde mentre tu a stomaco pieno trovi difficoltà a passare da un divano all'altro?
Dedizione è  la parole chiave che descrive dettagliatamente questo nodo di muscoli e sorrisi Aquafresh. Non ho ancora incontrato un fisico quantistico, un ingegnere nucleare e men che meno un programmatore che sfidano le onde con destrezza e nelle loro pause ti raccontano la loro carriera nella NASA. La tavola è un'amante gelosa e richiede gran parte della tua giornata, per svegliare addominali, braccia, gambe e glutei, lavorare sul baricentro, ottenere la giusta agilità ed entrare in connessione con le onde percependo quella giusta. I muscoli richiedono tempo ed esercizio, il SF nonostante le sue mille doti non dispone se non di giornate di 24h come tutti i gelatinosi comuni mortali, ed ovviamente incastrare il tutto con l'amore per il codice HTML o la rivoluzione russa risulta un ossimoro.
Forse è per questo che il Surfista Fico, che verrà definito d'ora in poi SF per comodità (o pigrizia, ma chi sto prendendo in giro, io sono brava a mangiare patatine davanti all'ennesima replica del mio PC dei Monty Pythons!) è strutturalmente incompatibile con la maggior parte dei modelli di Femmina che circolano indisturbati.Tutte abbiamo una tartaruga in collezione, di cui vantarci con le amiche e di cui custodiamo gelosamente la foto per le chiacchiere deprimenti dei periodi di magra con altre affamate come te. E' esotico, come il bastone della pioggia che hai comprato in quella sagra e non sai che minchia fartene se non spolverarlo. Così come ogni maschio che non sia la versione italica di Quasimodo ha una Barbie da sbandierare agli amici il venerdì sera in birreria, con scheda illustrativa e servizio fotografico già impaginato da Facebook. 

Quello che non si dice, di solito, è che tutti i SF e le Barbie sono i così detti modelli "virus intestinale". Durano non più di 24-48 ore, passata la fase acuta si torna lentamente alla realtà e si comincia a trovare questi modelli da prima pagina dei migliori magazine da aeroporto dannatamente noiosi. Non avrai facilmente la possibilità di discutere con loro della questione cipriota (si effettivamente, un interlocutore competente a riguardo è raro anche nel mondo dei modelli imperfetti. Tranne a Cipro!), non capiranno le tue citazioni di Woody Allen, se li porti ad una mostra di Pollock sosterranno che loro avrebbero imbiancato meglio e i Reality Show sono il loro concetto di cultura generale ed attualità. In men che non si dica capirai di avere davanti un perfetto involucro dalla sostanza incompatibile a te, omuncolo o femminuccia del mondo comune e noioso.
Che poi diciamocelo,  mica è colpa loro! La bellezza è l'unica dote che non dev'essere dimostrata. Il tuo acume non è altro che il metodo che hai per non estinguerti nel mondo della selezione naturale, la tua ironia la tua arma speciale per attirare individui del sesso desiderato senza basarti sul primo sguardo e il tuo stile fra l'Hipster e il Boho Chic il tuo modo di riciclarti nel mercato per non restare sugli scaffali.
Ed è per questo che il SF e la Barbie sono la coppia perfetta! Nel loro ambiente anglosassone saranno sicuramente stati il re e la regina del ballo di fine anno. Sono belli, sorridenti, invidiati e straordinariamente felici.
Questo è il punto che mi causa genuina e sana invidia per queste categorie.
Non una tartaruga su cui ci posso grattare il cacio da mettere nella carbonara. Non le tette che sfidano la gravità mentre le tue sfidano la prova matita con il sei giusto per bocciare, ma rimando a settembre. Non il culetto a mandolino senza un filo di cellulite( ok, io donna agrume ammetto che un po' si, quello lo invidio.).
La loro innata e perpetua spensieratezza.
I SF e le Barbie sono i Peter Pan dell'epoca contemporanea. Nessuno di loro sta appiattendo il loro epico fondoschiena su di una seggiola partorendo funamboliche sinapsi a riguardo. Probabilmente sono ancora in spiaggia, a farsi baciare dal sole o dall'oggetto del proprio affetto, a sfidare le onde o i carboidrati, a prepararsi per il prossimo pool party anche se alla fine sono gli unici che con un solo costume addosso fanno una figura perfetta.
Loro sono l'immagine della radiante serenità, che predichino pure le miei insegnanti di Yoga occidentali, dietro il loro apparente amore universale credo si nasconda la stessa faina isterica che possiede ogni donna in quei giorni del mese. E fanculo allo zen.
No, loro sono felici davvero.

Hanno imparato ad attingere al vero succo della vita e si ciucciano tutto il nettare senza preoccuparsi del domani. Godono di ogni singolo minuto, ora o giornata, consapevoli che le prossime saranno forse anche migliori.
Spesso non sono di famiglia ricca e vivono in alloggi spartani, progettati per farci stare a malapena la loro tavola e le loro chiappe nel lettino modello super base, non hanno quasi mai acqua calda perché temprati dall'oceano e va bene così.
Mentre tornavo da Uluwatu rigorosamente in scooter, seguendo gli usi e costumi locali, con lo sguardo perso fra le palme e le risaie, mi chiedevo: ma come invecchiano i surfisti?
Credo che i surfisti non invecchino mai. Così come credo che nessuno invecchi quando il presente è migliore di qualsiasi aspettativa. Credo che la vita sia troppo breve per aspettare la pensione per fare quello che ci piace, qualsiasi cosa sia. Credo che l'unico debito in questa vita lo abbiamo nei confronti di chi fa parte del nostro mondo e non consiste nel creare un futuro migliore ma un presente di cui gioire. Rendere felici le persone che ci circondano e non caricarle di negatività e di cattiverie. Lasciarle andare quando sentono il bisogno di continuare la loro strada senza di noi. Migliorare la nostra e la loro esistenza attraverso l'unica cosa che ci appartiene: la capacità di rendere le loro giornate speciali.
No, non sarò mai una surfista e anche se diventassi anoressica non sarei mai una Barbie.
Ma qualcosa del loro colorato mondo me lo porto dietro e continuerò a passare le domeniche a guardarli volteggiare sulle spiagge più belle che abbia mai visto ricordandomi che il mondo è per chi sa esserne felice.

Anche se sarò sempre quella che si limita all'hamburger sul promontorio.