martedì 24 febbraio 2015

Our work is changing.

Non ho il copyright di questa frase, per quanto potrei tranquillamente attribuirmene la maternità per tutte le volte che l'ho pensata, esposta e tentato di far capire ad interlocutori disinterssati.
Sono quasi quattro mesi di nomadismo, di lavoro in uno spazio di Co Working e di inserimento in una società agli antipodi dei paramentri italiani. Quattro mesi in un ambiente multiculturale fatto di persone che si nutrono di curiosità, che investono tempo e dedizione in progetti studiati con tutta la professionalità del caso. Quattro mesi in un mondo fatto di sogni che non dormono nel cassetto, di progetti che non si accantonano per paura, di preghiere Hindu alla statua di Ganesha che protegge la casa, di meditazione e di introspezione nelle sedute di Yoga, di risate e di abbracci sinceri e svariate ideologie lanciate nel calderone di sentimentimenti e relazioni momentanee quanto profonde con stranieri che senti un po' famiglia, un po' parte di te.
Quattro mesi dopo smetti di comprendere e giustificare chi passato il giro di boa dei trenta, non ha ancora il coraggio di alzarsi in piedi, far sentire la sua voce, affrontare la propria vita ma caccia la faccia nel cuscino dell'infanzia mentre la mamma accarezzando la testa ripete che andrà tutto bene e non è da solo.
A questo punto del mio viaggio mi chiedo perchè si sprechino gli anni migliori sguazzando nell'infelicità.
Abbiamo tutti un bagaglio di scuse sul groppone per giustificare la qualità insoddisfacente della nostra vita, con le quali ci addobbiamo quotidianamete, invece che riempirci le tasche di energia e affrontare le situazioni con entusiasmo.
Rianalizzando la mia collezione di fallimenti, umani, emotivi e professionali, mi rendo conto che l'unica responsabile delle proprie azioni sono sempre stata io.
Non è colpa della persona con cui la relazione sentimentale, sia essa amore o amicizia, è fallita. Sono stata io che ho infilato la testa sotto la sabbia, mi sono raccontata favole auto assolutive per evitare di affrontare il problema in tempi brevi, per codardia e mancanza di coraggio. Non è colpa dello stato se non ho una stabilità economica, vivo in uno stato guidato da un governo corrotto ed assolutista, che spesso spadroneggia concentrando buona parte dei beni economici nella capitale e lasciando alla mercè dei propri problemi sociali il resto dell'arcipelago, provvedendo addirittura a soffocare violentemente eventuali rivolte sociali. Eppure, questo angolo penalizzato dell'arcipelago mi insegna ogni giorno nuove lezioni. Innanzitutto, che ognuno costruisce il proprio destino senza attendere dall'alto soluzioni. Sono poche le caste che si possono permettere l'accesso alle sovvenzioni statali, tuttavia ognuno nel suo piccolo crea la sua piccola fortuna. In un Warung dismesso, portando a spasso pasti sulla testa da vendere a chi lavora e producendoli di notte, investendo nella costruzione di più strutture per ospitare turisti, creando tour per l'isola. La cosa sconvolgente che ho notato qui è che una popolazione dall'infimo livello di scolarizzazione, spesso anche in età molto avanzata, impara le lingue necessarie per portare avanti quello che sanno fare. Che sia l'inglese, il giapponese o il cinese, si lanciano a capofitto nell'apprendere rudimentalmente chiavi di comunicazioni universali. Mentre noi, dall'alto della nostra cultura sviluppata,di rado affrontiamo lo scoglio di un'altra lingua cercando la via più semplice anche per le vacanze.
Un'altra grossa lezione mi è stata data nel weekend trascorso, quando suggerendo ad un amico del luogo l'idea per un nuovo business, che sarò lieta di supportare, la sua prima affermazione è stata: "Ho bisogno di tempo per costruire un team." Individualismo di matrice occidentale contro l'alveare asiatico. Chissà chi ha ragione. Forse è vero che nel vecchio continente il benessere ha raggiunto livelli molto più elevati, ma è vero che in un Asia abituata a combattere con tragedie geologiche ed epidemiche, rivolte intestine e spesso occupazioni, ad oggi sembra avere maggiore stabilità e reggere meglio l'impatto della crisi globale, divenendo una delle poche oasi depression free, dove la crescita aumenta anzichè diminuire. Sarà forse il caso di smettere di mangiare tutte quelle torte, che poi ingrassano e causano problemi cardiovascolare ed iniziamo a dividerle con la nostra comunità.
Il titolo di questo articolo è in una tabella di legno pirografata, all'interno principale di Hubud, il mio ufficio balinese.
Forse sia il caso di percepire la crisi come un cambiamento anzichè una depressione e di affrontare la dolorosa politca nazionale ed internazionale come un'occasione per cercare il nostro posto nel mondo?
Qualche giorno fa, mentre studiavo per la redazione di un contenuto per un mio cliente, mi sono trovata a leggere la storia della Vespa. Il simbolo del design italiano nel mondo, attualmente esposto al MoMA di New York e noto al mondo intero, non è nato in un periodo di placido benessere. Fu subito dopo la Seconda Guerra Mondiale che Enrico Piaggio si trovò ad affrontare la depressione di uno stato dopo una delle peggiori piaghe umane e ovviamente un business in decrescita visto che il potere d'acquisto era crollato. Non aspettò però momenti migliori, non si rintanò nel suo porto sicuro. Decise di produrre un veicolo alla portata di tutti, di larga diffusione. La cosa che forse non tutti sanno e che ho piacevolmente scoperto è che il prototipo della Vespa fu un flop e i primi pezzi vennero accolti negativamente dal pubblico. Nonostante ciò, investì ciò che aveva in una catena di montaggio, perfezionò il modello, chiese un appoggio commerciale all'allora salubre Lancia e il suo audace, per i nostri tempi forse folle giocarsi i tutto per tutto creò quello che oggi è noto in tutto il mondo.
E' forse dunque arrivato il momento di rimboccarsi le maniche e smettere di piagnucolare cercando soluzioni reali, smettendo di sopravvivere in attesa del miracolo?

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